Mura Ciclopiche - Circeo - Storia e Leggenda

Storia e Leggenda del Circeo
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Mura Ciclopiche

di Roberto Volterri

da Hera n. di novembre 2005
Edizioni Hera


"... E all'isola Eèa venimmo; qui stava
Circe riccioli ribelli, terribile dea dalla parola umana,
sorella germana d'Eèta dal cuor crudele;
entrambi son nati dal Sole, che illumina gli uomini,
e madre fu Perse, la figlia d'Oceano..."

(Odissea, X 135-139)

Così Omero ci descrive l'arrivo di Ulisse all'isola, al territorio che vorremmo identificare con il promontorio del Circeo, con le sue ciclopiche mura, anche se poco più avanti è lo stesso "cantore cieco" a precisarsi che "e all'isola Eèa, dove l'Aurora nata di luce ha la casa e le danze, dov'è il levarsi del Sole" (Odissea, XII, 3-4). Eèa andrebbe più correttamente localizzata nell'estremo oriente del mondo conosciuto dai Greci, trovando così riscontro anche con le vicende di Giasone e degli Argonauti.

Ci piace pensare, però, che poco più a sud di Roma, sullo splendido litorale di Latina che si estende davanti al Monte Circeo - a pochissimi chilometri da Terracina, dove sorse il misterioso tempio di Giove Anxur (cfr. Hera 28, pag.68)e un po' più a nord nella suggestiva Sperlonga dove l'imperatore Tiberio soleva trascorrere le sue oziose giornate estive - il prode Ulisse sia sbarcato insieme ai suoi compagni, destinati dalla omerica fantasia a essere trasformati, metaforicamente o meno, in "porci". Per non parlare ovviamente delle ardite tesi dell'amico Felice Vinci, il quale vedrebbe invece svolgersi le avventure del furbo Odisseo nel Baltico (cfr. Hera 39, pag.72) o di quelle di chi scrive, sommessamente avanzate cercando di correlare l'enigmatico messaggio contenuto nel Disco di Festos con le vicende dell'astuto greco (cfr. Hera 22, pag.36).

Tuttavia, ovunque tali vicende siano ambientate, non ci dispiace affatto effettuare una breve ricognizione nei luoghi in cui al giorno di d'oggi l'immaginario collettivo, le tradizioni radicatesi nel tempo e il piacere di credervi hanno localizzato sia il Tempio di Circe, sia tratti di suggestive mura ciclopiche che altre ardite ipotesi, avanzate alla fine degli anni '30 del XX secolo, che si identificherebbero addirittura in ciò che rimane dell'onnipresente ma introvabile Atlantide.

Su tale "ipotesi" torneremo più avanti. Questa nostra breve esplorazione ci consentirà soprattutto di avvicinarci a costruzioni qua e là sparse per il Lazio meridionale, ma curiosamente simili ad analoghe strutture rintracciabili un po' più lontano: in Perù, a Machu Picchu e a Shacsyhuaman. Iniziamo con un doveroso commento a quanto lo storico Tito Livio ebbe a scrivere riguardo alle ciclopiche mura del Circeo.

Un'errata traduzione?

Contrariamente al cattivo uso fatto degli scritti di Tito Livio da molti storici, dobbiamo dire che la prova più evidente che le mura ciclopiche esistessero da lungo tempo va ricercata proprio nello stesso autore. "His laboribus exercita plebe, quia et urbi multidenem, ubi usus non esset, oneri rebatur esse et colonis mittendis occupari latius impreii fines uolebat, Signiam Circeiosque colonos misit, praesidia urbi futura terra marique" (storie, I,56.3)

La traduzione delle ultime due righe appare più che palese anche per chi ha lasciato da qualche tempo le aule del liceo: la corrente interpretazione vorrebbe infatti che la fondazione dell'antica Circei sia stata opera di alcuni volenterosi coloni appositamente inviati nel basso Lazio dall'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, che alla fine del VI secolo a.C. e invece no.

Non è affatto così se cerchiamo di effettuare una più approfondita analisi grammaticale del testo, basandoci soprattutto su quanto esposto - in maniera ben più ampia - in un interessante sito internet (www.circei.it) curato da svariati ricercatori degli enigmi storico-archeologici, in primis gli amici Gianluigi Proia e Carlo Gallone, sito dedicato proprio alle bellezze e ai misteri di questo incantevole lembo del litorale laziale.

Nella lingua dei nostri padri, il complemento di moto a luogo richiede il caso accusativo, preceduto dalla preposizione "ad". Eppure, c'è la solita, classica eccezione: per i nomi di città, la suddetta preposizione "ad" non è richiesta! Rileggiamo allora la frase, o meglio, parte di essa: "Signiam Circeiosque colonos misit".

Quindi l'etrusco ultimo re di Roma inviò i coloni in città - Circeios, presso Circei e Signiam, a Signia - che evidentemente già esistevano ben prima del 510 a.C., data ufficialmente attribuita alle mastodontiche costruzioni. Chi realizzò le imponenti mura ciclopiche a difesa delle città stesse? E perché utilizzare massi così di grandi dimensioni, rimovibili solo con notevoli difficoltà?

Molti studiosi delle antiche tecniche costruttive avrebbero suddiviso in archi temporali le costruzioni ciclopiche, classificandole in opere del I, II, III periodo e oltre. Fin qui siamo ancora nella tranquillizzante ortodossia. Dal nostro punto di vista, appare però estremamente interessante un testo dell'archeologo Gloria Marinucci, intitolato Tecniche costruttive romane, dedicato anche all'opus siliceum in cui i muri sono innalzati mediante grossi blocchi non lavorati, poligonali e semplicemente incastrati gli uni sugli altri. E di dimensioni "ciclopiche".

Ella infatti scrive:"[...] l'opera poligonale detta anche opus siliceum, ciclopica, pelasgica, tirinzia è formata da grossi blocchi di pietra sovrapposti senza malta. Attribuita ai romani, presenta alcuni interrogativi sui quali ancora si discute [...]". Quel suo "si discute" appare come un palese invito a una doverosa prudenza nelle attribuzioni di paternità di tale tecnica costruttiva.

Ma vediamo di esaminare - sempre avvalendoci del notevole contributo derivante dalle informazioni degli studiosi del Circeo prima menzionati - alcune caratteristiche di tecnologia costruttiva comune a tutte le cinte murarie ciclopiche, con particolare attenzione a quella della sua acropoli:

"La facciata esterna della cinta muraria è rifinita con estrema cura, cioè liscia e priva di interstizi ove trarre appoggio per scalarle quando si tratta di: a) ingressi alla città, "porte" e le loro immediate adiacenze; b) mura particolarmente a rischio, di scalata o di attacco con artifizi; c) angoli e adiacenti tratti di connessione a incastro. La facciata interna non è rifinita con cura, cioè è grossolana e caratterizzata da interstizi quando si tratta: a) della facciata interna delle cinte murarie; b) della facciata esterna in prossimità di strapiombi e quindi senza necessità di contrastare tipologie di attacchi temibili, ma comunque costruite da blocchi enormi spesso superiori a un diametro di 1,5 ml; c) delle facciate interne ed esterne delle cinte murarie secondarie e terziarie che cingevano in anelli più grandi le acropoli stesse".

Tali tecniche costruttive vengono da più parti attribuite al contestato popolo dei Pelasgi, ma le ritroviamo anche tra gli Ittiti e tra i Greci - per non uscire subito dal continente europeo - e, in maniera ben più vistosa, tra i popoli dell'America centro-meridionale.

Mura ciclopiche: stratagemma difensivo?

Alla seconda domanda - sul perché utilizzare massi "scomodi" - rispondono ancora i ricercatori già citati: "...prendendo quale riferimento l'altezza massima di un individuo di quei tempi - presumibilmente 1,75 metri e l'altezza media di 1,65 metri - si scopre che pur allargando braccia e gambe, un qualsiasi attaccante non riesce a scalare le mura dovendo arrivare inevitabilmente ad aggrapparsi a un blocco mediamente di 1,65 per 1,80-2,20 metri (sino a ora il blocco di maggiori dimensioni misurato qui al Circeo è di forma trapezoidale ed è 1,10 per 2,85 metri): quindi il malcapitato scalatore inevitabilmente rimane fermo senza poter proseguire la scalata per mancanza di appigli e diviene soggetto all'azione esercitata all'apice delle mura dai difensori...".

Indubbiamente, è un'acuta osservazione che giustificherebbe il ricorrere a materiale estremamente pesante, difficilmente trasportabile ma in grado di garantire una difesa quasi inviolabile dell'acropoli! Non solo al Circeo troviamo inconsuete costruzioni ciclopiche che farebbero pensare alla presenza in quelle regioni, di popolazioni in possesso di una tecnologia un po' più evoluta di quella che avrebbero posseduta popolazioni romane del VI secolo a.C., quando Roma, ufficialmente, aveva preso vita da più di due secoli.

Infatti, nel 1792, il francese Louis Petit-Radel - citato lungamente da Luigi Sansi nella sua vasta opera Storia di Spoleto (Foligno,1869) - durante un suo viaggio tra Roma e Napoli fu colpito dalle mura della cittadina di Fondi, a pochi chilometri da Sperlonga, da Terracina, dal Circeo, e "[...] osservò la singolare differenza, che correva tra la muratura di piccoli sassi e calcina della parte superiore che, secondo la iscrizione che vi si legge, è della Colonia Romana del tempo di Augusto e gli smisurati petroni, tagliati a poligoni irregolari, che ne compongono la parte inferiore.

Ciò considerando, gli balenò alla mente il pensiero che l'edificio fosse di due epoche diverse e lontane; e che quel muro, ristorato diciotto secoli or sono dai coloni romani, fosse stato antichissimamente edificato tutto quanto di que' grandi massi, che ora ne formano solo la base. Poco appresso, mentre egli si raggirava per le campagne romane, in cerca di alcuna pianta pel giardino botanico di Roma, s'abbatté sul monte Circello - ovvero il Circeo. N.d.A. - in alcune rovine di struttura uguale a quella da lui veduta nella parte inferiore del muro di Fondi. Il sospetto, sortogli in mente, intorno alla remotissima antichità di tali ruderi, prese allora maggior vigore in quel colle, che fu già il promontorio reso famoso da Omero nella Odissea e che serba tutt'ora il nome di Circe; mito di antica e misteriosa gente italica, già ivi esistente all'approdarvi di Ulisse [...]".

Incuriosito da queste sue iniziali ricerche, il Petit-Radel consultò le Memorie dell'Accademia Francese d'Iscrizioni e Belle Lettere ove rinvenne interessanti appunti, redatti nel 1729 dal Fourmount, su strutture megalitiche di altre antiche civiltà. Egli si rese subito conto che "[...] quel modo di murare era stato tenuto, nella remotissima antichità, tanto in Grecia quanto in Italia; ed essere quello che Euripide, Strabone e Pausania attribuiscono ai Ciclopi, quando parlano dei muri delle sovraddette città. Seguendo pertanto l'esempio di questi scrittori, egli cominciò a chiamare le rovine da lui osservate, mura ciclopiche; e le giudicò opera di quei Pelasgi, detti in parte anche Ciclopi, che avevano fabbricato i muri di Argo, di Micene e di Tirinto [...]".

Furono dunque i Pelasgi a edificare, ben prima del VI secolo a.C., le mura ciclopiche del Circeo e di alcune località limitrofe? Non lo sappiamo, ci piace pensarlo e soprattutto ci piacerebbe che rispondesse al vero anche l'intrigante ipotesi avanzata nel 1937 da uno studioso romano che visse alcuni anni a San Felice Circeo, il medico Evelino Leonardi, fortunatamente divulgate dall'amico Proia in alcuni articoli pubblicati sul mensile Mystero.

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